*Pubblicato su Avvenire domenica 15 novembre 2020
Caro direttore,
ripenso alla settimana appena trascorsa e mi pare che sia stata particolarmente lunga e densa di emozioni. La paura per il virus che appare inarrestabile, la notizia dei passi avanti fatti nella sperimentazione del vaccino e quella luce che cominciamo a intravedere alla fine del tunnel. Vedo la speranza, per la prima volta nella storia dell’uomo, che un virus a portata pandemica possa effettivamente essere sconfitto dall’uomo e non, come accaduto in ogni altra pandemia che ha colpito l’umanità, lentamente estinguersi perché ha esaurito la sua carica virale, lasciando dietro di sé soltanto morte e disperazione. Stiamo combattendo una battaglia difficilissima. E lo stiamo facendo a un costo altissimo.
Di vite, innanzitutto. Ma anche di affetti, di gabbie di solitudine e isolamento, di incertezze sul futuro. Un processo che sta lentamente facendo emergere gli istinti, facendo venire meno quella naturale propensione dell’uomo a essere un animale sociale. Ma questa settimana ci ha consegnato anche due fatti di cronaca, che ritengo essere l’uno lo specchio dell’altro. Il primo è lo sciopero “al contrario” indetto dai braccianti agricoli lo scorso 12 novembre. Uno sciopero indetto contro la schiavitù a cui questa gente è stata – nei fatti – ridotta. Contro l’assenza delle benché minime condizioni di sicurezza sul lavoro, incluso il diritto all’igiene personale e ai dispositivi di protezione individuale.
Eppure i braccianti hanno annunciato che il loro sciopero si sarebbe svolto continuando a lavorare, garantendo il cibo sulle nostre tavole, ma rinunciando alla paga. Un gesto da giganti. In Sicilia diciamo, da sempre, che «il sazio non crede al digiuno ». È proprio vero, non c’è forma di condivisione più grande di quella che accomuna le persone nella sofferenza. Poi c’è l’altra notizia, che mi ha spezzato il cuore, per l’indifferenza di tanti.
È quella dei nuovi morti per naufragio nel Mediterraneo e di uno straziante salvataggio da parte della Open Arms. Ci sono le urla di una madre disperata, che chiede incessantemente: “Cercate il mio bambino! Ho perso il mio bambino”. Il resto è cronaca, e lo splendido commento di Marina Corradi su queste pagine. Quel bimbo, Youssef, di appena sei mesi oggi non respira più. Guardare quelle immagini è stato peggio di un pugno allo stomaco. Ne ho viste tante, di quelle madri. Le ho viste sbattere la testa per terra, sui muri, cercare la morte per raggiungere i figli ingoiati dalle onde. Che cosa stiamo facendo, mi chiedo, direttore? Stiamo parlando della stessa gente che porta avanti le proprie rivendicazioni continuando a lavorare la terra, ma rinunciando alla propria magra paga. E noi non riusciamo a fermarci un attimo, a ragionare, neanche davanti alla disperazione di una giovane madre che ha perso il figlioletto tra le onde.
Ecco. Il mio appello è alle istituzioni, tutte, affinché non restino indifferenti alla disperazione di quelle madri e alla dignità di quei braccianti. In Italia, in questo momento, i decreti Lamorgese hanno superato gli abominevoli decreti (in)sicurezza. Ma se il Parlamento non farà in fretta nel concluderne l’iter, il rischio è di vanificare quel lavoro, ancora insufficiente ma che rappresenta comunque un cambio di rotta. Allo stesso modo, sul fronte europeo, dove io posso e devo offrire il mio contributo, il «Patto per le migrazioni» ha davanti a sé un percorso in salita, nelle Commissioni e in Parlamento, per superare gli iniqui meccanismi del Regolamento di Dublino, che resta in vigore fino a quando non approveremo in via definitiva il nuovo accordo. La strada è tracciata, e non possiamo permetterci alcun passo indietro. Ne va del futuro che vogliamo costruire. E ne va del nostro riflesso, osservandoci allo specchio.