Da lontano i suoni che arrivano dalla foresta al confine tra Croazia e Bosnia sembrano quelli di una battuta di caccia. I passi affrettati di chi insegue, la preda che cerca scampo gettandosi nel torrente. Fino a quando il guaito non ha un volto, ed è il lamento di un uomo, e poi di altri ancora. Ad attenderli per l’ultima bastonata prima del confine da percorrere a ritroso è un individuo incappucciato, in tuta scura, armato di “tonfa”, il manganello in dotazione alla polizia di Zagabria.
Eccole le prove che la Croazia e l’agenzia europea per i confini (Frontex) hanno sempre negato. Mesi fa quando il lavoro di alcune testate internazionali, tra cui Avvenire e The Guardian, aveva mostrato i segni delle sevizie sui corpi di afghani, iracheni, siriani, e perfino i pannolini strappati ai neonati in mezzo alle neve, le teste rotte, le gambe spezzate, Zagabria aveva negato. E anche davanti alle nostre immagini con la polizia in tenuta antisommossa che catturava una famiglia di profughi e la caricava su un furgone con i sedili d’acciaio, le catene e neanche i finestrini, il governo aveva voluto sentire ragione. Anni di circostanziato lavoro di “Border violence monitoring” erano stati bollati come privi di credibilità.
Gli europarlamentari Alessandra Moretti, Elisabetta Gualmini, Pietro Bartolo e Pierfrancesco Majorino sono venuti a verificare anche questo.
“Dal 28 al 30 ottobre ritorniamo sui luoghi chiave della rotta balcanica per fare luce, ancora una volta, sulla tragica situazione dei migranti che vivono nei campi profughi al confine tra Croazia e Bosnia”. Così in una nota gli europarlamentari avevano annunciato la missione.
L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, è a conoscenza di circa 75.000 rifugiati, richiedenti asilo e migranti che sono passati attraverso la Bosnia ed Erzegovina dall’inizio del 2018. Solo una piccola percentuale rimane nel paese per richiedere asilo, mentre la maggior parte cerca di raggiungere l’Europa occidentale. I lunghi tempi di attesa lo rendono particolarmente stressante per le persone che chiedono asilo nel paese a causa dell’incertezza.
Da anni i profughi denunciano di venire torturati e depredati di denaro, documenti, telefoni, perfino i quaderni dei bambini. E le foto di una discarica tra i campi minati, eredità del conflitto jugoslavo, dove vengono ammassati gli effetti personali lo confermano.
“Vogliamo continuare a tenere alta l’attenzione sul dramma che si sta consumando nel cuore dell’Europa – concludono gli europarlamentari – verificare le condizioni di vita dei migranti in particolare donne e bambini e vigilare sull’utilizzo dei fondi europei, quasi 90 milioni di euro dal 2018, che l’Unione europea ha versato alla Bosnia per la gestione ‘esternalizzata’ delle frontiere e della migrazione”.
Il governo croato ha istituito un meccanismo di monitoraggio indipendente, una condizione imposta per ottenere il finanziamento Ue, allo scopo di sorvegliare le attività della polizia alle frontiere. Quasi metà delle organizzazioni “indipendenti” incaricate del monitoraggio ricevono finanziamenti dal ministero dell’Interno di Zagabria.
“La nostra missione è inizia a Trieste, città di confine dove migliaia di migranti e profughi cercano di attraversare il confine sloveno-italiano passando la notte tra i boschi e dove incontreremo le maggiori Ong attive sul fronte della migrazione della rotta balcanica”, hanno spiegato i quattro eurodeputati. Da li, poi in viaggio verso la Bosnia, per visitare il campo di accoglienza di Lipa, “dove già nella precedente missione abbiamo constatato che bambini, donne e uomini sono costretti a vivere in accampamenti inumani”. Una volta a Bihac sono avvenuti nuovi incontri con le autorità locali di Bihac e del distretto di Una Sana e i rappresentati di diverse Ong che lavorano da tempo nell’area balcanica.
“In una fase storica in cui alcuni Paesi europei chiedono la costruzione di muri per fermare i migranti – ha osservato la delegazione – noi ci battiamo per porre fine alla logica dell’esternalizzazione continua dei confini e dei continui respingimenti come soluzione per far fronte ai flussi migratori. Serve una strategia complessiva che non lasci solo nessun singolo stato e che salvaguardi il diritto di asilo di ogni singolo migrante nel pieno rispetto dei diritti umani e del diritto e delle norme internazionali”.
Le circostanze gli danno ragione. Il “Border Violence Monitoring Network” ha esaminato e verificato 35 pushback solo a settembre e ai danni di 815 persone.
A Bihac l’edificio per famiglie straniere gestito grazie all’Oim ha fatto enormi passi avanti. L’italiana Laura Lungarotti, a capo dell’agenzia Onu per i migranti in Bosnia, è riuscita dare vita nuova a una struttura prima fatiscente che ora offre un tetto, cibo caldo e anche attività di istruzione. La convivenza di più gruppi familiari nello stesso stanzone non è sempre facile. L’affluenza in inverno aumenterà, ma è difficile offrire assistenza stabile quando non c’è alcuna possibilità di chiedere asilo all’Unione Europea. «Le famiglie sanno che ad attenderle c’è solo il “game” e il muro della polizia croata, ma non si arrendono e quando se ne vanno da qui – spiega un operatore sotto lo sguardo vigile di un poliziotto bosniaco che intende e parla un ottimo italiano – è perché tentano il game».
Anche nel campo di Lipa, a pochi giorni dall’apertura dei nuovi container nel quali potranno essere ospitati fino a se persone, ci sono segnali di miglioramento, tuttavia giudicati insufficienti dalla delegazione di europarlamentari socialdemocratici che hanno svolto un sopralluogo. “Siamo lontani da uno standard accettabile soprattutto in relazione ai fondi stanziati. Continueremo a vigilare”, scrivono in una nota Pietro Bartolo, Elisabetta Gualmini, Alessandra Moretti e Pierfrancesco Majorino. “A gennaio avevamo visto il dramma della gente in mezzo alla neve. Ora la desolazione dell’incertezza: tra viaggi tentati e progetti d’accoglienza difficili – hanno ricordato gli eurodeputati -. Nel campo sono ospitati centinaia di afghani e pakistani, ma mancano i servizi di base e quelli attivati probabilmente non saranno più sufficienti quando con l’avvicinarsi dell’inverno ci saranno i nuovi arrivi dei cittadini afghani in fuga dal loro Paese”.
Se la situazione non è perfino peggiore, molto lo si deve alla generosità di tanti donatori e a lavoro di organizzazioni come Ipsia-Acli, coordinati da Silvia Maraone. La barriera tra Ue e passi balcanici è fatta anche di menzogne di stato che cominciano a sfaldarsi. Le ispezioni sul confine croato, disposte per assicurarsi che non vi siano violazioni da parte degli agenti, sono in realtà ambigue. Mai, infatti, gli ispettori erano riusciti a trovare conferma dei maltrattamenti. Ora sappiamo il perché: le ispezioni vengono concordate in anticipo.
La conferma arriva direttamente dalle autorità di Zagabria, con un documento clamoroso. Mentre il ministero dell’Interno ribadiva che il «meccanismo di sorveglianza è indipendente», un documento ufficiale afferma il contrario. Rispondendo a una richiesta di accesso agli atti del “Centro studi per la pace” di Zagabria (Cms) il segretario di Stato Terezija Gras afferma che il «meccanismo di sorveglianza sul trattamento da parte degli agenti di polizia dei migranti irregolari e dei richiedenti protezione internazionale», avviene attraverso «visite annunciate al confine».
Il campo di Lipa resta il simbolo del ricatto. Grazie al lavoro delle organizzazioni come Ipsia-Acli, Caritas e Croce rossa, è stata concessa mesi fa l’apertura di un tendone-refettorio dove si può prendere un caffè caldo, giocare a scacchi e perfino a badminton. Gli europarlamentari venuti a controllare a nove mesi di distanza hanno trovato parecchi miglioramenti e i lavori in corso per l’apertura di un campo nel quale accogliere i migranti non più dentro alle tende militari, ma all’interno di container riscaldati con sei posti letto. Fuori dal campo, sotto gli occhi della polizia, nella spianata di fango in mezzo al niente, sono stati aperti un paio di minimarket e un bar con veranda sul campo profughi. Li gestiscono alcuni commercianti di Bihac che hanno trasformato vecchi container in negozi di fortuna. Come il “Game shop”, che vende l’occorrente per il “game”: torce, accendini, sacchi a pelo usati, power bank, barrette energetiche, vecchi cellulari, sim card e nastro adesivo con cui impacchettare e sigillare le poche cose della vita di prima: foto dei familiari, numeri di telefono da non perdere, gli ultimi spiccioli rimasti in tasca.
I pushback rimangono ampiamente applicati in tutta la regione. Secondo uno studio recente del Danish Refugee Council, tra il 1° luglio e il 30 novembre, sono stati registrati respingimenti 6.336 persone.
Il numero totale di persone che hanno segnalato pushback da gennaio a novembre 2021 è stato di 11.901. Il 18% di tutti i respingimenti ha riguardato famiglie con bambini, inclusi minori non accompagnati o separati dagli adulti di riferimento.
“Rispetto agli anni precedenti, il numero di persone che soggiornano nelle zone di confine della BiH con la Croazia (soprattutto nel cantone di Una-Sana) è diminuito significativamente nella seconda metà del 2021. Tuttavia, in media, è stato possibile identificare – spiga il Danish Refugee Council – fino a 500 persone che dormono all’aperto (in insediamenti improvvisati in tenda o abusivi), nonostante i continui sforzi degli attori umanitari per incoraggiare le persone a spostarsi (di nuovo) nei centri di accoglienza con capacità disponibili”.
La maggior parte di coloro che sono stati identificati in questi luoghi hanno sperimentato il pushback non una volta, ma più volte. Alloggiano principalmente in edifici abbandonati in rovina o in campi di fortuna, senza acqua, elettricità o mezzi per rendere il loro rifugio resistente alle intemperie. Dovendo cucinare in condizioni altamente antigieniche, spesso utilizzando acqua di qualità sconosciuta (proveniente da fiumi o da rubinetti esterni), uomini, donne e bambini che soggiornano in questi siti sono continuamente esposti a rischi per la salute. “Questi rischi – riporta ancora Drc – sono ulteriormente aggravati dalla mancanza di accesso all’assistenza umanitaria di base, all’accesso ai servizi pubblici (come il trasporto locale), e così via”.
Tra agosto e novembre 2021, un totale di 1.696 persone provenienti dall’Afghanistan hanno riferito di aver subito pushback dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina, comprese 61 persone che hanno subito pushback a catena dalla Slovenia, attraverso la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. Il numero include 65 minori non accompagnati, 154 famiglie con al seguito 163 bambini.
Tra gli afghani intervistati, sono state segnalate anche altre violazioni dei diritti, oltre ai respingimenti:
- il 60% ha riferito di essersi visto negato l’accesso alla procedura di asilo
- il 54% ha denunciato arresti o detenzioni arbitrarie
- il 51% ha denunciato un trattamento degradante
- il 16% ha denunciato abusi fisici
- il 64% ha denunciato di aver subito furto, estorsione e distruzione di proprietà
- l’1% ha riferito di aver subito la distruzione dei propri documenti.
Sebbene la maggior parte dei cittadini afghani attualmente in Bosnia-Erzegovina (e nella regione) sia effettivamente fuggita dal proprio paese prima della presa di potere da parte dei talebani ad agosto, la loro vulnerabilità non viene quasi mai valutata e considerata.
Appena raggiunte le aree di confine, spesso si può distintamente sentire il ronzio dei droni radiocontrollati dalla polizia croata. “Ci catturano sempre”, racconta un afghano dolorante giunto al respingimento numero 54. Quello che non sa è che gli aerei utilizzati dall’Europa per segnalare i migranti ai guardacoste libici adesso vengono impiegati anche su queste frontiere. Dove, si scopre adesso, perfino le ispezioni per individuare gli abusi della polizia croata sono concordate in anticipo con le autorità.
Come nel Mediterraneo gli equipaggi di Frontex danno la caccia ai migranti sui barconi da riconsegnare agli aguzzini dei campi di prigionia, nei Balcani puntano i teleobiettivi tra costoni, dirupi, foreste fittissime, segnalando poi alle squadre croate sul terreno la posizione dei profughi.
La conferma arriva dal tracciato di “Eagle 1” l’aereo di Frontex che tante volte incrociato durante le navigazioni nelle acque internazionali a ridosso della Libia e che, dopo essere stato individuato sulla scena di diversi naufragi, per un po’ aveva volato ordinando alle piattaforme pubbliche che monitorano i voli di oscurarne la rotta. Per lunghe ore “Eagle 1” a ottobre ha perlustrato l’intero confine tra Croazia e Bosnia, sempre tenendosi all’interno dello spazio aereo Ue.
Sul terreno, intanto, le ruspe messe in campo dal governo bosniaco hanno spazzato via gli accampamenti informali dove le famiglie attendono il momento buono per tentare l’attraversamento. Le pale dei caterpillar fanno volare per aria le tende, mentre le pesanti ruote sfasciano quel che rimane. Avviene sotto lo sguardo dei bambini. Qualche madre corre a salvare almeno le scarpe. Altri, a gruppetti, si avviano subito attraverso i campi di granoturco, per nascondersi ed esaminare la possibilità di una partenza anticipata verso la Croazia. Molti, esausti e disperati, vengono riportati indietro, in un accampamento del governo a Sarajevo, 400 chilometri più a sud. “Abbiamo perso anche questa volta – ci dice una ragazza mentre tenta di salvare una tutina rosa sporca di fango -. Ritenteremo in primavera”. Il marito è sconsolato, avrebbe voluto trascorrere la stagione più brutta in Europa, in un luogo caldo per la sua bambina. Gli toccherà una misera tenda e i bagni in comune.
Lasciando la Bosnia per rientrare nel territorio dell’Unione Europea la delegazione di europarlamentari ha così riassunto il senso e lo scopo della missione: “In una fase storica in cui alcuni Paesi europei chiedono la costruzione di muri per fermare i migranti noi ci battiamo per porre fine alla logica dell’esternalizzazione continua dei confini e dei continui respingimenti come soluzione per far fronte ai flussi migratori. Serve una strategia complessiva che non lasci solo nessun singolo Stato e che salvaguardi il diritto di asilo di ogni singolo migrante nel pieno rispetto dei diritti umani e del diritto e delle norme internazionali”.
A cura di Nello Scavo